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Quando la discriminazione nel rapporto di lavoro diviene reato. La tutela della donna nel mondo del lavoro: dalla fattispecie civile a quella penale.

Contributo a cura dell'avv. Giovanna Perna.

Da sempre la tutela paritaria della lavoratrice nel mondo del lavoro ha costituito oggetto di accesi dibattiti non solo in sede normativa ma soprattutto nella compagine sociale.

Partendo da un punto di vista, forse sbagliato, di una presunta inferiorità fisica della donna che si tramutava in una inferiore capacità lavorativa della stessa rispetto all’uomo, sono stati posti in essere una serie di interventi normativi che se originariamente diretti ad evitare forme di sfruttamento della donna lavoratrice, in realtà, in un’ottica iperprotettiva, hanno avuto l’effetto contrario di frenare l’affermazione del lavoro femminile e conseguentemente alimentarne la disuguaglianza.

Una esigenza antidiscriminatoria che ha visto il suo primo suggello da parte dell’Assemblea Costituente che ha sancito all’art. 37, comma 1, il seguente principio “La donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore. Le condizioni di lavoro devono consentire l'adempimento della sua essenziale funzione familiare e assicurare alla madre e al bambino una speciale adeguata protezione”.

Tale logica paritaria ha ispirato anche le successive normative di promozione delle pari opportunità di impiego delle donne. Il richiamo è immediato all’art. 1 della legge 903/1977, oggi trasfuso nell’art. 27 del Codice delle pari Opportunità, che ha espressamente normativizzato il divieto di qualsiasi discriminazione fondata sul sesso per quanto riguarda l'accesso al lavoro, in forma subordinata, autonoma o in qualsiasi altra forma, indipendentemente dalle modalità di assunzione e qualunque sia il settore o il ramo di attività, a tutti i livelli della gerarchia professionale.

Un atteggiamento discriminatorio che spesso può assumere anche connotati di una violenza fisica nonché psicologica, comportamenti indesiderati, anche a sfondo sessuale, posti in essere al fine di violare la dignità della lavoratrice e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo.

Se al cospetto di una disciplina così strutturata appare evidente una tutela in ambito civile, più ardua, invece, si presenta la possibilità di individuare norme di natura penale che consentano di punire atti di discriminazione basati sul genere.

Tuttavia, per far fronte ad una lacuna legislativa, da qualche anno ampia giurisprudenza si sta muovendo nella direzione di riconoscere rilevanza penale a tutte le pratiche discriminatorie e persecutorie realizzate ai danni del lavoratore in genere ma anche e soprattutto della donna lavoratrice. Sul punto, infatti, la Corte di Cassazione ha statuito che “gli atti vessatori, che possono essere costituiti anche da molestie o abusi sessuali, nell’ambiente di lavoro, oltre al cosiddetto fenomeno del mobbing, risarcibile in sede civile, nei casi più gravi, possono configurare anche il delitto di maltrattamenti” (Cassazione 33624/2007).

Una sentenza spartiacque che aprendo nuovi orizzonti in materia attraverso la prospettazione di una maggiore garanzia per la vittima di discriminazione, eserciterà, si spera, una forza dirimente nei confronti di coloro che sono avvezzi a porre in essere tali condotte. “Ai posteri l’ardua sentenza”.

 

29 marzo 2017

 

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