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Pubblico impiego: segreto di ufficio ed utilizzo a fini privati delle informazioni.

Corte di Cassazione, sentenza 28796 del 2017.

Il Direttore Regionale Agenzia delle Entrate, titolare dell’Ufficio dei Procedimenti Disciplinari contestava ad un dipendente in servizio presso la Direzione Provinciale di Reggio Emilia, la violazione dell’obbligo di rispettare il segreto di ufficio, di non utilizzare a fini privati le informazioni di cui disponeva per ragioni di ufficio e di non valersi di quanto è di proprietà dell’Agenzia per ragioni non di servizio, come prescritto dall’articolo 65 del CCNL Agenzie Fiscali. Al dipendente veniva anche contestato di aver violato il Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, di avere violato l’obbligo di evitare situazioni o comportamenti che possano nuocere agli interessi o all’immagine dell’Amministrazione, per avere acceduto abusivamente al sistema informativo dell’Anagrafe Tributaria per ragioni diverse da quelle di servizio, per avere acquisito dai colleghi di lavoro informazioni e notizie relative a pratiche non di sua competenza, per avere comunicato i dati relativi agli accertamenti in corso a terzi.

All’esito del procedimento disciplinare, la Pubblica Amministrazione datrice di lavoro comminava al lavoratore il licenziamento disciplinare.

Il Tribunale di Reggio Emilia, adito dall’interessato che aveva impugnato il licenziamento, dichiarava la legittimità del licenziamento e lo stesso Tribunale respingeva l’opposizione.

Il reclamo dal medesimo proposto veniva respinto dalla Corte di Appello di Bologna, la quale riteneva che: da quanto riferito dal dipendente al giudice penale in sede di interrogatorio di garanzia risultava accertato che il medesimo aveva acceduto al sistema informatico dell’Agenzia delle Entrate di Reggio Emilia e aveva divulgato a terzi le notizie relative a posizioni estranee al suo lavoro ed al gruppo dal medesimo coordinato; che siffatte ammissioni non risultavano infirmate dalle generiche difese svolte nel giudizio; la sanzione espulsiva era proporzionata ai fatti contestati ed accertati, sussumibili entro la fattispecie disciplinare del CCNL punita con il licenziamento, avuto riguardo alla posizione rivestita, alla natura sensibile dei dati divulgati, alla natura meramente esemplificativa delle fattispecie delineate dalla contrattazione collettiva, e alla gravità della condotta, sul piano oggettivo e soggettivo, idonea a ledere irreparabilmente il vincolo fiduciario, vincolo che una sanzione meramente conservativa non avrebbe potuto ricostituire.

Il lavoratore proponeva ricorso per cassazione.

Con riferimento alle ipotesi, quali quella in esame, di illeciti disciplinari tipizzati dalla contrattazione collettiva, deve escludersi la configurabilità in astratto di qualsivoglia automatismo nell’irrogazione di sanzioni disciplinari, specie laddove queste consistano nella massima sanzione, permanendo il sindacato giurisdizionale sulla proporzionalità della sanzione rispetto al fatto. La proporzionalità della sanzione disciplinare rispetto ai fatti commessi, è, infatti, regola valida per tutto il diritto punitivo, e risulta trasfusa, per l’illecito disciplinare, nell’articolo 2106 del codice civile, con conseguente possibilità per il giudice di annullamento della sanzione eccessiva, proprio per il divieto di automatismi sanzionatori, non essendo, in definitiva, possibile introdurre, con legge o con contratto, sanzioni disciplinari automaticamente conseguenziali ad illeciti disciplinari.

La valutazione di proporzionalità tra sanzione ed illecito deve essere operata con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla utilità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, al nocumento eventualmente arrecato, alla portata soggettiva dei fatti stessi, ossia alle circostanze del loro verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo, con la precisazione, quanto a quest’ultimo, che, al fine di ritenere integrata la giusta causa di licenziamento, non è necessario che l’elemento soggettivo della condotta del lavoratore si presenti come intenzionale o doloso, nelle sue possibili e diverse articolazioni, posto che anche un comportamento di natura colposa, per le caratteristiche sue proprie e nel convergere degli altri indici della fattispecie, può risultare idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario così grave ed irrimediabile da non consentire l’ulteriore prosecuzione del rapporto.

Al lavoratore è stato contestato non l’omesso esercizio dei poteri di vigilanza e di controllo e di occultamento di condotte illecite commessi da altri lavoratori, ma di avere acceduto abusivamente al sistema informativo dell’Anagrafe Tributaria per ragioni diverse da quelle di servizio, di avere acquisito dai colleghi di lavoro informazioni e notizie relative a pratiche non di sua competenza, di avere comunicato dette informazioni e i dati relativi agli accertamenti in corso a terzi estranei, di avere infranto il Codice di comportamento dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, di avere violato l’obbligo di evitare situazioni o comportamenti idonei a nuocere agli interessi o all’immagine dell’Amministrazione.

La valutazione della gravità dei fatti è stata formulata dalla Corte di Appello territoriale non in considerazione delle sole disposizioni collettive, ma con riferimento agli aspetti concreti del rapporto dedotto in giudizio. La Corte di Appello nella formulazione del giudizio di proporzionalità e di gravità della condotta, ha, infatti, tenuto conto delle funzioni affidate all’interessato (coordinatore di un gruppo di altri lavoratori) e della natura dei dati divulgati all’esterno.

La qualificazione come sensibili dei dati abusivamente acquisiti ed illecitamente comunicati a persone estranee all’Amministrazione è stata fatta con riguardo alla circostanza che l’acquisizione e la divulgazione ha riguardato informazioni e dati destinati a rimanere riservati a garanzia della efficienza e dell’imparzialità dell’azione di controllo e di verifica propria dell’Agenzia delle Entrate.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso del lavoratore condannandolo al pagamento di oltre 3000 euro di spese legali.

14 settembre 2018

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