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Messaggi diffamatori su Facebook e giusta causa di licenziamento.

Corte di Cassazione, sentenza 10280 del 2018.

La Corte di appello di Bologna respingeva il gravame proposto da una lavoratrice avverso la decisione del Tribunale di Forlì, che aveva rigettato il ricorso volto all’accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimatole per giusta causa.

La condotta contestata e posta a base del licenziamento consisteva in affermazioni pubblicate dalla lavoratrice sulla propria bacheca virtuale di Facebook in cui si esprimeva disprezzo per l’azienda (“mi sono rotta i c*** di di questo posto di m*** e per la proprietà”).

Rilevava la Corte che l’ascrivibilità della condotta tenuta dalla lavoratrice al delitto di diffamazione integrava comportamento idoneo ad incrinare irrimediabilmente il vincolo fiduciario coessenziale al rapporto di lavoro e deducibile quindi a giusta causa di licenziamento, tanto più che nella fattispecie alle invettive rivolte all’organizzazione aziendale ed ai superiori si aggiungeva la prospettazione del ricorso a malattie asintomatiche in caso di dissensi di vedute con il datore di lavoro, e ciò da parte di soggetto caratterizzantesi per una documentata frequente morbilità.

Di tale decisione la lavoratrice chiedeva la cassazione.

La Suprema Corte ha ritenuto il ricorso infondato.

La condotta sanzionata con il licenziamento deve essere riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo.

Al fine di ritenere integrata la giusta causa di licenziamento, non è necessario che l’elemento soggettivo della condotta del lavoratore si presenti come intenzionale o doloso, nelle sue possibili e diverse articolazioni, posto che anche un comportamento di natura colposa, per le caratteristiche sue proprie e nel convergere degli altri indici della fattispecie, può risultare idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario così grave ed irrimediabile da non consentire l’ulteriore prosecuzione del rapporto.

La valutazione della gravità del fatto in relazione al venir meno del rapporto fiduciario che deve sussistere tra le parti non va operata in astratto, ma con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva del fatto, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo.

La valutazione attinente al profilo dell’intenzionalità della condotta della lavoratrice è stata adeguatamente compiuta, posto il riferimento alla considerazione della mancanza di ogni segno di resipiscenza dopo la fase reattiva da parte della lavoratrice, che era andata ben oltre il contegno diffamatorio, laddove era stato anche prospettato il ricorso a malattie asintomatiche in caso di dissensi da parte di soggetto caratterizzantesi per documentata e frequente morbilità.

La giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario.

Il giudice deve valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare.

La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca Facebook integra un’ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione.

La condotta di postare un commento su Facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, con la conseguenza che, se lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili, la relativa condotta integra gli estremi della diffamazione e come tale può essere valutato in termini di giusta causa del recesso, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo.

La Corte di Cassazione ha, dunque, rigettato il ricorso della lavoratrice condannandola al pagamento di oltre euro 4000,00 per compensi professionali.

14 luglio 2018

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