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Lavoro in somministrazione: illegittimo il licenziamento dei lavoratori a tempo indeterminato in assenza della verifica di altre posizioni occupabili.

Corte di Cassazione, sentenza 181 del 2019.

La Corte d'Appello di Venezia, in parziale accoglimento del reclamo proposto da alcuni lavoratori, pronunciando in merito al licenziamento, intimato da GI GROUP S.P.A., lo dichiarava illegittimo, per difetto di giustificato motivo oggettivo, ed in applicazione della tutela di cui al comma 5 dell’articolo 18 della legge 300/1970, dichiarati risolti i rapporti di lavoro, condannava la parte datoriale al pagamento, in favore di ogni lavoratore, dell'indennità risarcitoria, determinata in misura pari a ventiquattro mensilità dell'indennità di disponibilità, percepita al momento del licenziamento.

I licenziamenti, secondo la Corte di Appello, erano illegittimi, in difetto di prova della sussistenza della ragione posta a base degli stessi ovvero dell'impossibilità di reperire alcuna missione lavorativa compatibile con il livello professionale; in proposito, veniva osservato come la società avesse proceduto ad assunzioni a termine per ricoprire posizioni lavorative, astrattamente compatibili con quelle dei lavoratori espulsi, delle quali non aveva offerto valida giustificazione; per effetto di tale accertamento, conseguiva l'applicazione della disciplina di cui al comma 5 dell’articolo 18, dovendosi escludere la manifesta infondatezza del fatto posto a base del licenziamento.

Quanto all'indennità risarcitoria, la Corte di Appello utilizzava come parametro di riferimento l'indennità di disponibilità che i lavoratori percepivano, non per colpa del datore di lavoro, da oltre un anno, al momento del licenziamento; la Corte di Appello, oltre a riconoscerne natura retributiva, osservava che i lavoratori, in caso di prosecuzione del rapporto, avrebbero continuato a percepire detta indennità e che, dunque, il risarcimento non poteva che calcolarsi alla stregua della stessa.

Della controversia veniva investita la Corte di Cassazione.

La Suprema Corte ha ritenuto correttamente applicato l’articolo 18 della legge 300/1970.

In tema di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, la verifica del requisito della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento previsto dal comma 7 dell’articolo 18 della legge 300/1970, concerne entrambi i presupposti di legittimità del recesso e, quindi, sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore (cosiddetto repechage); fermo l'onere della prova che grava sul datore di lavoro ai sensi della legge 604/1966, la manifesta insussistenza va riferita ad una evidente, e facilmente verificabile sul piano probatorio, assenza dei suddetti presupposti, che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso.

Nel caso affrontato, la Corte di Appello ha ritenuto applicabile il regime indennitario in presenza di una insufficienza probatoria concernente l'adempimento dell'obbligo di repechage.

La Corte di Appello ha ritenuto non raggiunta la prova della sussistenza della ragione organizzativa posta a base del licenziamento e dunque del presupposto che, unitamente all'obbligo del repechage, integra il giustificato motivo oggettivo (impossibilità di inviare in missione i lavoratori); la Corte di Appello ha osservato che, dalle risultanze istruttorie, era emersa, nell'arco temporale rilevante ai fini di causa, la stipulazione di plurimi contratti a termine per posizioni lavorative, astrattamente compatibili con quelle dei lavoratori espulsi, di cui il datore di lavoro non aveva offerto valida giustificazione; al contempo, ha considerato, anche, la mancanza di un interesse della parte datoriale a mantenere in disponibilità i lavoratori per un lungo periodo invece che collocarli presso gli utilizzatori, pervenendo ad un giudizio conclusivo di insufficienza probatoria.

In assenza della prova del fatto controverso, la Corte di Appello ha applicato la regola di giudizio basata sull'onere della prova, individuando come soccombente il datore di lavoro; ha coerentemente ritenuto illegittimo il recesso ma, sul piano del regime sanzionatorio, ha applicato la tutela risarcitoria, escludendo la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento.

La Suprema Corte ha anche considerato corretta la determinazione del risarcimento del danno sulla scorta della misura della indennità di disponibilità.

I lavoratori, al momento del licenziamento, e da circa un anno, percepivano l'indennità di disponibilità, per fatto non imputabile al datore di lavoro; la funzione del risarcimento previsto dall’articolo 18 della legge 300/1970 è, sostanzialmente, quella di ripristinare lo status quo ante, attraverso la corresponsione al lavoratore di quanto (e non più di quanto) avrebbe percepito se non vi fosse stata l'estromissione, di fatto, dall'azienda (così identificando il contenuto concreto dell'obbligazione di pagamento dell'indennità risarcitoria di cui all’articolo 18 in ragione della effettiva situazione economica che il lavoratore aveva al momento del licenziamento illegittimo).

14 marzo 2019

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