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Il mobbing presuppone la prova a carico di chi agisce dell’elemento soggettivo intenzionale.

Corte di Cassazione, sentenza 5472 del 2021.

La Suprema Corte ha rigettato il ricorso avverso la sentenza della Corte di Appello di Lecce, che aveva respinto il ricorso di una lavoratrice che aveva chiesto la condanna del Ministero della Difesa al risarcimento del danno subito per comportamenti mobbizzanti sul luogo di lavoro.

In particolare, i giudici di secondo grado avevano escluso che dalle risultanze istruttorie emergesse la prova della condotta vessatoria aggiungendo che non era riscontrato il nesso causale fra gli eventi verificatisi e l’insorgenza della patologia psichica.

Avverso la sentenza della Corte di Appello, la lavoratrice ha proposto ricorso per cassazione sostenendo che i giudici del secondo grado avrebbero preteso dal lavoratore la prova di un coefficiente soggettivo doloso, mentre, una volta allegato l’inadempimento ed il danno, doveva ritenersi a carico della controparte la dimostrazione dell’assenza di una condotta non imputabile.

La Suprema Corte ha affermato che il mobbing, ove riferito ad atti astrattamente leciti ma che in concreto si caratterizzino per l’intento vessatorio, presuppone evidentemente la prova dell’elemento soggettivo intenzionale. Per il lavoratore che agisce in giudizio vi è la necessità della prova di tale intento, in quanto elemento caratterizzante della fattispecie. Solo in presenza della prova specifica di fatti addotti come di inadempimento, infatti, la colpa, come da regole generali, si presume ed il datore di lavoro è onerato della dimostrazione dell’esatta osservanza dei propri obblighi o della non imputabilità della condotta.

Nel caso affrontato, quindi, la Corte di Appello ha correttamente ritenuto che tutte le condotte esaminate non fossero illegittime e non integrassero inadempimento, onerando la lavoratrice della prova di un intento vessatorio e doloso.

26 ottobre 2021

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