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Contrasto tra il certificato del medico curante e gli accertamenti del medico di controllo.

Corte di Cassazione, sentenza 5027 del 1988.

Un operaio di una cementiera proponeva ricorso chiedendo che fosse dichiarata la illegittimità del licenziamento in tronco motivato col fatto che sarebbe stato assente ingiustificato dal lavoro per oltre quattro giorni consecutivi.

Assumeva il lavoratore che non sussisteva nella fattispecie l'assenza ingiustificata, poiché in base all'esibita documentazione medica il suo stato di salute era precario, onde i giorni di assenza erano giustificati. Sosteneva, inoltre, di aver regolarmente consegnato i certificati medici attestanti il suo stato di malattia. La società datrice di lavoro rilevava che mai alcun certificato medico era stato consegnato e contestava, comunque, l'attendibilità dei certificati medici.

Il Giudice di primo grado rigettava il ricorso. Perché riteneva che il lavoratore era guarito il 25 luglio e che successivamente non aveva comunicato all'azienda le ulteriori assenze per malattia.

Avverso la predetta sentenza proponeva appello il lavoratore.

La società in data 27 luglio aveva richiesto nuova visita medica di controllo ai sensi dell'articolo 5 dello Statuto dei Lavoratori, e il medico di controllo della U.S.L. lo aveva in grado di tornare al lavoro il 29 successivo. Premesso di essere stato sottoposto il 28 luglio a trattamenti di chiroterapia e meccanoterapia, come risultava dai certificati medici esibiti, il lavoratore affermava che le assenze dei giorni 29 e 30 luglio erano, perciò, insufficienti a fare scattare la sanzione del licenziamento. Il medesimo asseriva che l'assenza per i predetti due giorni, come il mancato inoltro all'Azienda della relativa certificazione medica, era da attribuirsi alla prosecuzione della malattia iniziata il 13 luglio precedente con prognosi di quindici giorni, giusta certificazione rilasciata dalla USL. Pertanto, una volta denunciata e documentata la malattia, non era necessario ripetere tali adempimenti, atteso che il precedente stato di malattia già forniva la causa delle assenze.

I Giudici di appello rigettavano il ricorso ritenendo che il lavoratore, attesa la natura della sua malattia (osteoartrosi diffusa del rachide e discopatia) poteva considerarsi guarito in data 26 luglio 1982, salva la facoltà di continuare le sedute di chiroterapia nei tempi e nei modi confacenti al suo orario di lavoro, sicché le ulteriori assenze dal posto di lavoro del tutto ingiustificate. Ciò specialmente in riferimento ai giorni 28 e 29 luglio, per cui non poteva parlarsi di prosecuzione della malattia.

Il lavoratore proponeva ricorso per cassazione.

L’interessato sosteneva di aver effettuato dal 13 al 28 luglio una terapia antiartrosica, regolarmente comunicata alla società. Gli era stato contesto di non aver anticipato il rientro al lavoro di due giorni, atteso che il sanitario dell'INAM, il quale aveva effettuato un controllo su richiesta dell'azienda, aveva indicato, emettendo un suo giudizio prognostico, come data di cessazione della malattia il 26, anziché il 28 luglio, data questa indicata, invece, dal medico curante. Il non aver ripreso servizio il 26, bensì il 31 luglio, aveva comportato perciò il licenziamento per assenza ingiustificata.

Secondo i Giudice di appello il lavoratore poteva fondatamente ritenersi guarito il 26 luglio ed era in grado di riprendere il lavoro. anche se costretto a completare il ciclo di trattamenti per altri due giorni, atteso che ciò comportava alcuno stato di malattia, rilevante ai fini della prestazione dell'attività lavorativa. Lamentava il lavoratore che il venir meno dello stato acuto della malattia cronica non impone al lavoratore di anticipare il rientro al lavoro interrompendo una terapia legittimamente prescritta dal medico curante. L’articolo 2110 del codice civile e l’articolo 32 della Costituzione consentono di assentarsi dal lavoro anche per il tempo richiesto dalle cure e terapie necessarie al pieno recupero della salute anche al di là del periodo morboso acuto, purché la terapia sia congrua ed il periodo di riposo indispensabile per il successo di quella. Non era stato esaminato il contrasto tra le due certificazioni sanitarie e tra le due prognosi (quella del medico curante e quella del medico dell'INAM).

La Suprema Corte ha accolto il ricorso del lavoratore.

Nel caso di contrasto tra il contenuto del certificato del medico curante del lavoratore e gli accertamenti compiuti dal medico di controllo, il giudice ha il compito di stabilire (anche avvalendosi dei poteri istruttori) quale delle contrastanti certificazioni sia maggiormente attendibile.

Nel caso affrontato, il contrasto tra le due certificazioni attiene alla diversità della prognosi, avendo ridotto il medico dell'INAM il periodo di terapia, senza peraltro fornire alcuna giustificazione al riguardo. Recependo acriticamente la certificazione del medico di controlla, è stato omesso l'esame comparativo tra i due certificati. Ed è appunto l'elemento dell'effettiva durata della malattia, quello non preso in esame, poiché malattia deve intendersi non soltanto lo stato patologico in atto, ma anche l'esigenza terapeutica connessa a tale stato. Pertanto andava valutata se la necessità del dipendente di recarsi in altra città per sottoporsi a cure strettamente connesse con la denunciata malattia artrosica rendesse allo stesso pregiudizievole ai fini di un sollecito e completo ripristino delle sue condizioni di salute l'anticipata ripresa dell'attività lavorativa, come indicata nel certificato del medico di controllo (il 26 luglio anziché il 28 luglio).

Affermare apoditticamente che le cure riabilitanti possono proseguirsi anche durante l'attività lavorativa, compatibilmente con l'orario di lavoro, non è convincente, in quanto il fatto può ostacolare la necessaria terapia riabilitativa, con la conseguenza che ciò compromette la piena guarigione del soggetto.

12 marzo 2020

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