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Conseguenze del rifiuto del dipendente di adempiere a un trasferimento ingiustificato.

Corte di Cassazione, sentenza 11408 del 2018.

Una lavoratrice, premesso di avere prestato attività di lavoro dipendente presso un Istituto di design, di essere stata trasferita da una sede di lavoro ad un’altra, di avere immediatamente contestato la legittimità del trasferimento, di essere stata licenziata per mancata presentazione in servizio presso la sede di destinazione del trasferimento, ha chiesto l'accertamento della illegittimità del licenziamento, intimatole per insussistenza delle ragioni alla base del disposto trasferimento e la condanna della società al risarcimento dei danni.

Il giudice di primo grado ha respinto la domanda.

La Corte di appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato la illegittimità del licenziamento ed ha condannato la società al pagamento, a titolo di risarcimento del danno, di un'indennità pari a venti mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto percepita.

La statuizione di illegittimità del recesso datoriale è stata dalla Corte di Appello fondata sul rilievo che la istruttoria espletata in secondo grado aveva dimostrato che il trasferimento della lavoratrice presso la nuova sede non era riconducibile ad alcuna specifica esigenza aziendale; il rifiuto della lavoratrice di prestare servizio presso quest'ultima sede risultava, pertanto, giustificato dall'inadempimento datoriale realizzatosi con la violazione dell'articolo 2103 del codice civile.

Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso il datore di lavoro.

La questione del rifiuto del dipendente di adempiere al provvedimento datoriale di trasferimento ad altra sede, in quanto ritenuto illegittimo, si inquadra nel più generale tema degli effetti dell'inadempimento di una delle parti del contratto a prestazioni corrispettive nell'alveo del quale è riconducibile il contratto di lavoro.

Una parte della giurisprudenza della Corte di Cassazione si è a riguardo espressa nel senso che il mutamento della sede lavorativa deve essere giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive, in mancanza delle quali è configurabile una condotta datoriale illecita, che giustifica la mancata ottemperanza a tale provvedimento da parte del lavoratore, sia in attuazione dell'eccezione di inadempimento di cui all'articolo 1460 del codice civile, sia sulla base del rilievo che gli atti nulli non producono effetti, non potendosi ritenere che sussista una presunzione di legittimità dei provvedimenti aziendali che imponga l'ottemperanza agli stessi fino ad un contrario accertamento in giudizio.

E' stato, però, puntualizzato dalla Suprema Corte che, in caso di trasferimento non adeguatamente giustificato a norma dell'articolo 2103 del codice civile, il rifiuto del lavoratore di assumere servizio presso la sede di destinazione deve essere proporzionato all'inadempimento datoriale, sicché lo stesso deve essere accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria, configurandosi, altrimenti, l'arbitrarietà dell'assenza dal lavoro.

La Corte di Cassazione, in fattispecie di trasferimento di dipendente presso altra sede, ha ritenuto che l'inadempimento parziale, giudicato di scarsa importanza rispetto alla reazione negativa della lavoratrice, con apprezzamento di fatto esente da rilievi, non poteva giustificare il rifiuto aprioristico e senza un eventuale avallo giudiziario (conseguibile anche in via d'urgenza), di eseguire la prestazione lavorativa richiesta, in quanto il lavoratore è tenuto ad osservare le disposizioni impartite dall'imprenditore e può legittimamente invocare l'eccezione di inadempimento solo in caso di totale inadempimento dell'altra parte.

Ci si deve muovere dalla pacifica configurazione del rapporto di lavoro subordinato quale rapporto a prestazioni corrispettive, connotato dalla previsione di una serie articolata di obblighi a carico di entrambe le parti, i quali si affiancano alle obbligazioni principali scaturenti dal contratto di lavoro, rappresentate, per il lavoratore, dalla prestazione lavorativa e, per il datore di lavoro, dal pagamento della retribuzione (in tema di obblighi ulteriori delle parti, in via esemplificativa, è sufficiente ricordare, quanto al datore di lavoro, l'obbligo di protezione e, quanto al lavoratore, l'obbligo di fedeltà). Ulteriore peculiarità del rapporto di lavoro, non direttamente discendente dalla natura corrispettiva delle obbligazioni reciproche ma comunque destinata ad influenzare la verifica del sinallagma contrattuale, è costituita dal diretto coinvolgimento, nella esecuzione del contratto, della persona del lavoratore, con conseguente potenziale ricaduta dei provvedimenti datoriali su aspetti non meramente patrimoniali ma connessi a fondamentali esigenze di vita del prestatore di lavoro, oggetto di protezione, anche costituzionale, da parte dell'ordinamento.

Il principio di corrispettività non richiede, al di fuori dei limiti posti da disposizioni legali o collettive, e segnatamente, nel caso di rapporto di lavoro subordinato, dall'articolo 36 della Costituzione, che ad ogni singola prestazione o modalità della prestazione di una parte corrisponda una distinta controprestazione o comunque una qualche forma di remunerazione, bensì opera, ove la legge o l'autonomia privata non dispongano diversamente, tra gli insiemi di obblighi assunti da ciascuna delle parti, assicurando nel suo complesso l'equilibrio contrattuale.

Il giudice, ove venga proposta dalla parte l'eccezione inadimplenti non est adimplendum , alla quale è riconducibile il rifiuto del lavoratore di rendere la prestazione fondata sulla allegazione dell'inadempimento, anche parziale, del datore di lavoro, deve procedere ad una valutazione comparativa degli opposti inadempimenti avuto riguardo anche alla loro proporzionalità rispetto alla funzione economico-sociale del contratto e alla loro rispettiva incidenza sull'equilibrio sinallagmatico, sulle posizioni delle parti e sugli interessi delle stesse; pertanto, qualora rilevi che l'inadempimento della parte nei cui confronti è opposta l'eccezione non è grave ovvero ha scarsa importanza, in relazione all'interesse dell'altra parte, deve ritenersi che il rifiuto di quest'ultima di adempiere la propria obbligazione non sia di buona fede e quindi non sia giustificato. Ci deve essere equivalenza tra l'inadempimento altrui e il rifiuto a rendere la propria prestazione il quale, deve essere successivo e causalmente giustificato dall'inadempimento della controparte.

Il trasferimento in violazione di legge ad altra sede lavorativa disposto dal datore di lavoro, e cioè in assenza di comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive, non giustifica in via automatica il rifiuto del lavoratore all'osservanza del provvedimento e quindi la sospensione della prestazione lavorativa.

E’ da escludere la necessità che il rifiuto del lavoratore, per risultare legittimo, debba essere sempre preventivamente avallato in via giudiziale per il tramite eventualmente dell'attivazione di una procedura in via di urgenza, in quanto ciò significherebbe porre a carico del lavoratore un onere di entità non indifferente, in difetto di specifica previsione normativa che lo supporti.

L'inottemperanza del lavoratore al provvedimento di trasferimento illegittimo dovrà, quindi, essere valutata, sotto il profilo sanzionatorio, alla luce del disposto del codice civile, secondo il quale, nei contratti a prestazioni corrispettive, la parte non inadempiente non può rifiutare l'esecuzione se, avuto riguardo alle circostanze, il rifiuto è contrario alla buona fede. La relativa verifica, in coerenza con le richiamate caratteristiche del rapporto di lavoro, dovrà essere condotta sulla base delle concrete circostanze che connotano la specifica fattispecie nell'ambito delle quali si potrà tenere conto, in via esemplificativa e non esaustiva, della entità dell'inadempimento datoriale in relazione al complessivo assetto di interessi regolato dal contratto, della concreta incidenza del detto inadempimento datoriale su fondamentali esigenze di vita e familiari del lavoratore, della puntuale, formale esplicitazione delle ragioni tecniche, organizzative e produttive alla base del provvedimento di trasferimento, della incidenza del comportamento del lavoratore sulla organizzazione datoriale e più in generale sulla realizzazione degli interessi aziendali, elementi questi che dovranno essere considerati nell'ottica del bilanciamento degli opposti interessi.

Nè la necessità di accertamento della non contrarietà a buona fede dell'inottemperanza del lavoratore al provvedimento di trasferimento può essere elisa assumendo che la nullità del provvedimento datoriale, renderebbe tale provvedimento privo di effetti sì che dallo stesso non potrebbe sorgere alcun obbligo di esecuzione a carico del lavoratore il quale, per questo solo fatto, dovrebbe ritenersi esonerato dal rendere la propria prestazione. Tale assunto è frutto, infatti, di una visione parcellizzata ed atomistica degli obblighi scaturenti dal rapporto di lavoro in quanto pretermette del tutto la necessaria considerazione del sinallagma esistente tra i reciproci, complessivi obblighi delle parti. Il provvedimento datoriale affetto da nullità, deve essere ricondotto all'ambito dell'inadempimento parziale per il quale valgono i principi in tema di necessità di verifica della non contrarietà alla buona fede del rifiuto del lavoratore di rendere la propria prestazione.

La Suprema Corte ha quinti osservato che la sentenza impugnata è incorsa in errore avendo il giudice di appello mostrato di collegare la legittimità del rifiuto della lavoratrice a rendere la prestazione presso la nuova sede al solo dato della adozione da parte della società del provvedimento di trasferimento in violazione dell'articolo 2103 del codice civile, omettendo di accertare se tale rifiuto risultava contrario o meno alla buona fede avuto riguardo alle concrete circostanze del caso.

1 luglio 2018

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